Siamo in Senigallia, ad Ancona, nel suggestivo periodo pre-natalizio, quando la tragedia ebbe inizio, per quella che verrà ricordata come la strage dell’8 dicembre. Prima il caos alla discoteca di Corinaldo Lanterna Azzurra, a causa, probabilmente, di una bravata, di uno stolto gesto di un ragazzo che comincia a spruzzare spray urticante sulla gente.
L’ambiente chiuso della discoteca è pieno di teen-agers che assistono al concerto del rapper Sfera Ebbasta. Basta poco a scatenare il panico e, dopo il convulso fuggi fuggi generale della folla, rimane il tristissimo epilogo di quella che doveva essere una lieta serata: il bilancio è di sei morti, cinque ragazzi e una mamma di 39 anni.
La rabbia, lo sgomento, l’indignazione iniziale, lasciano ben presto il posto ad una profonda tristezza per quei visi che non si incontreranno di più, e la sensazione che da quella sera niente tornerà più indietro. Il 10 dicembre Giulia, una studentessa del liceo Medi di Senigallia, lascia con una lettera una toccante testimonianza di quanto accaduto:
“Troppa paura di essere scalfita da quegli sguardi pieni di rabbia e disperazione. Vorrei stringere le loro mani, rassicurarli con un sorriso, abbracciarli magari… E invece, me ne sto qui, con una penna in mano a sputare parole su un pezzo di carta durante il minuto di silenzio per chi non c’è più. Non pensavo ci si potesse sentire tanto impotenti di fronte a una morte così ingiusta. Vestiamo tutti di nero oggi, in Loro onore.
Già nell’entrare dal cancello esteriore della scuola, sentivo qualcosa di diverso nell’aria. All’inizio non sapevo cosa fosse. Poi, entrando, ho capito. Silenzio. Era il silenzio a regnare. Nessuno trova il coraggio di urlare l’arrivo dei prof, di ridere a crepapelle con il compagno di banco…
La classe di Asia è di fianco alla nostra, sento pianti. In corridoio, un via vai di anime in pena, di amici che si ritrovano con un vuoto immenso. L’atmosfera è devastante. Troppo dolore da sopportare. Vedo i rappresentanti di istituto fare un’intervista sotto lo striscione in onore delle vittime che dice: «Da un concerto si esce senza voce, non senza vita».
Sento il pianto che sale sempre più su, poi si blocca in gola, si spezza, lo rimando giù dolorante… non so da cosa si origini, un insieme di emozioni che hanno un comune denominatore, la morte, ma che da lì si ramifica e acquista mille altre sfaccettature. È passata solo la prima ora e sono già esausta.
Le parole iniziano a sgorgare, ragionamenti sull’accaduto, frasi di rabbia, piene di dolore. Ho la nausea. È tutto troppo pesante. Si vede e si sente un ritmo ben preciso, incalzante, senza fine, a tratti silenzioso che aumenta in mormorii, discussioni, via via sempre più forti fino a esplodere in un lamento accompagnato dalle lacrime per poi cessare e ricominciare.
Terza ora
Il tempo sembra essersi fermato. Come il tempo, non passa la tristezza. Il mio prof di matematica è assente. Possiamo immaginare tutti il motivo: il suo nome è Piergiorgio Girolimini e oggi, invece di festeggiare per la verifica di fisica scampata, il nostro pensiero va a lui, rimasto a casa a piangere la sorella Eleonora.
Altri giornalisti.
Altre lacrime.
Silenzio.
Le persone più fragili o le più colpite sono nella classe di Asia, piena di rose e bigliettini, accompagnate da una psicologa. È dura. Ho paura. Paura che tutto cambierà e che niente sarà come prima. Ho fame, ma non me la sento di passare davanti alla Sua aula per raggiungere le macchinette. Temo di mancarLe di rispetto.
L’intervallo, al contrario di tutti gli altri giorni è passato in maniera inesorabilmente lenta, niente schiamazzi lungo il corridoio.
Per la prima volta esco dalla mia classe, vado in cerca di due mie compagne di squadra che quella sera erano con Asia. Abbraccio Valentina ormai svuotata da tutte le lacrime piante. Poi vedo Anita, così piccola, così fragile. Si gira, mi vede e mi abbraccia così forte da lasciarmi senza fiato. Non avrei mai potuto immaginare che tale forza potesse uscire da una così docile creaturina.
Piange, ha il visino bagnato, le asciugo le lacrime, le sorrido, cercando di farla stare meglio, ma cosa, in questo momento può farla soffrire di meno? Io, la risposta, non ce l’ho. Prima di andarsene, mi urla: «Lei era con me quella sera, io mi sono salvata e Lei no!» Ed esplode in un altro, tragico pianto pieno di rabbia. Rimango a guardarla andare via per un po’, con un senso di incredibile impotenza. Non è giusto, tutti noi lo sappiamo.
Finito l’intervallo
È arrivato il momento che un po’ mi aspettavo. Il brainstorming con la prof di italiano. Quelli che prima erano solo pensieri confusi ora si trasformano in parole pronunciate, in emozioni manifestate. La testimonianza di Alice ci fa rimanere tutti pietrificati, lei c’era. Ci racconta che da dove è uscita si vedeva tutto, vedeva le facce violacee dei ragazzi schiacciati dalla folla, le mani tese verso di lei e il suo gruppo di amiche come a chiedere aiuto.
Più tardi, gente svenuta per terra, piena di graffi e sangue, viola in volto. Scenari spaventosi di violenza, terrificanti. Alice non riesce ad affrontare ancora il suo dolore, come lei altri non hanno più mangiato e dormito dopo l’accaduto. Lo chiamano blocco emotivo.
È la quarta ora quando riesco a guardare tutti miei compagni in faccia, vedo occhi gonfi, sguardi imbarazzati di chi in qualche modo è meno coinvolto, chi guarda un punto fisso, chi invece guarda ovunque, magari in cerca di un qualcosa che sia in grado di farli sentire più protetti, perché almeno per oggi nessuno di noi si sente protetto.
È il turno di Nicoletta, che ci racconta come è venuta a sapere della scomparsa della sua cara amica Asia. Ha cercato di inviarle un messaggio quella mattina, un messaggio che non verrà mai letto. Le labbra di Nicoletta tremano, non riesce a stare ferma con le mani, le lacrime della mia amica mi fanno soffrire, ma una parte di me non si sente degna di piangere insieme a lei. Nicoletta è piena di rimorso, avrebbe voluto dirle cento volte in più: «Ti voglio bene», e viene sovrastata dal pensiero che per lei sia troppo tardi ormai.
Ultima ora
Non sembra finire mai.
Provo a condividere le mie paure con alcune delle mie amiche. È tutto così surreale. Prendiamo coscienza del fatto che quello a venire sarà un periodo troppo lungo e buio. La morte, nella sua tragica essenza, ha riunito sotto il dolore, l’amicizia e il rancore tutti i componenti di questa scuola, dagli studenti, ai bidelli, ai professori.
Per tutto il fine settimana e per le quattro ore e mezza di questo tragico lunedì mattina non ho versato neanche una lacrima, come se fossi in una bolla e tutto ciò che accade intorno a me cercasse di colpirmi, ma viene spinto via. Ma ora, riguardando le rose bianche di Asia e rileggendo queste mie parole ai miei compagni, esplodo.
Piango. Fa troppo male. Mi sento in un certo senso sbagliata a farlo perché io non ho perso i miei cari, erano persone a me sconosciute o appena incrociate nel corso della mia vita, ma rivivendo lo straziante dolore attraverso le persone a me vicine, posso confermare una cosa; in qualche modo, quelle persone sono diventate parte cruciale della mia esistenza perché le loro morti, inequivocabilmente ingiuste, hanno segnato nel profondo la mia coscienza, rendendoci tutte persone cambiate, più consapevoli.
Fa rabbia pensare che ci siano voluti avvenimenti tanto vicini a noi e incommensurabilmente tragici per renderci tali, ma purtroppo è così. È nel momento in cui esco da scuola che realizzo. Sono le 13 del 10 dicembre 2018, quando mi sveglio come da un brutto sogno, solo per rendermi conto che si tratta della realtà e che queste sono le nostre vite, così preziose, così effimere.
Oggi fa male, fa male sul serio. Mi sento di dare questo unico consiglio a chi sta leggendo le mie parole. Non portiamo altra tristezza vedendo questo bruciore come fuoco che devasta, vediamolo invece come fuoco che illumina e dà speranza. Facciamolo per Loro”.
*3C liceo Medi di Senigallia